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Amo la Chimica



Grazie ad una buona dose di fortuna (e all'abilità del pilota in condizioni meteorologiche decisamente non ottimali), siamo arrivati a Longyarbyen per l'ultima notte alle Svalbard. Domani torneremo in Italia dopo 26 incredibili giorni in Artico, concludendo così l'esperienza più bella (e faticosa) della mia vita. 
Ho cercato di raccontarvi le mie emozioni e le nostre avventure "su e giù per i ghiacciai" (cit.), ma non credo ci sia fotografia o testo in grado di descrivere in pieno ciò che ho provato ad essere qui, al 79° parallelo. 
Un aspetto su cui mi sono molto poco soffermato è stato quello umano. E' stata un'esperienza di condivisione pressoché totale: della fatica, della bellezza, dei "pasta&basta party", delle Vecchie Romagne, dei "questa sera andiamo a letto presto, eh" e di molto altro. Lavorare intensamente con altre persone potrebbe non essere semplice, specialmente quando si arriva quasi a -40°C di temperatura percepita. Tuttavia, lo è stato e penso che questo, al netto dell'ottenimento della carota, sia stato l'aspetto più importante di questa missione e che ti permette di dire che è stata una spedizione riuscita. 
Mi mancherà questo posto e mi mancheranno i compagni di avventura che ho conosciuto e che chissà se incontrerò di nuovo. 

Ad ogni modo, è venuto il momento di realizzare un altro sogno: dormire (e dopo quasi un mese, domani "rivedrò" la notte!).
Grazie a tutti voi che avete letto questo "diario di viaggio". 

NOTE CONCLUSIVE: questa missione è stata possibile grazie all'ottenimento di un Arctic Field Grant (Iron Speciation in Svalbard Ice Core and Snow). Il supporto logistico è stato fornito dalla Stazione Artica Dirigibile Italia gestita dall'Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
Le persone che hanno reso indimenticabile questa esperienza sono state: Andrea, Elena, David, Chiara, Rosario e Giusy. Oltre che un tricheco peluche che ancora resiste come mascotte della stazione! 
La missione si è svolta come parte integrante del mio percorso di dottorato presso l'Università Ca' Foscari di Venezia.

Dopo aver prelevato le carote di ghiaccio dall'Hol
Dopo aver prelevato le carote di ghiaccio dall'Holtedahlfonna e aver constatato come il cambiamento climatico agisca anche a queste quote (e latitudini) elevate, l'obiettivo del progetto era quello di "processare" i campioni. In altre parole, si sono tagliate le carote di ghiaccio in piccole sezioni di una decina di centimetri e inserite in apposite provette.

Queste attività, per evitare ogni forma di contaminazione, sono state condotte in un'area considerata "pulita" e abbiamo dovuto indossare questi strani vestiti per evitare di "sporcare" i campioni con i nostri indumenti.

Le operazioni sono durate un paio di giorno, lavorando per almeno 8 ore al giorno a circa -10°C e in ginocchio sulla neve. Non proprio il massimo del confort. 
Ogni tanto il nostro sguardo si spingeva verso l'orizzonte controllando che nessuno orso polare si fosse incuriosito al nostro lavoro. 

Analizzare una carota di ghiaccio è come sfogliare un libro di storia scritto non in italiano, ma in un alfabeto chimico. Un po' come la stele di Rosetta è servita per decifrare i geroglifici, per capire che cosa è contenuto in una carota di ghiaccio ci si avvale di tecniche chimico-analitiche per carpire l'informazione climatica ivi contenuta. 
Qui alle Svalbard abbiamo estratto due carote di ghiaccio, una delle quali sarà utilizzata per analizzare il Ferro e altri composti. Chissà quale storia ci racconterà...

In questa foto vedete finalmente l'ultimo campione processato e la nostra (comprensibilissima) gioia! 🙂 

#ricerca #svalbard #icecore

Che Ny Alesund sia un posto sui generis lo vedi an
Che Ny Alesund sia un posto sui generis lo vedi anche dalle piccole cose. Qui è vietato qualsiasi utilizzo di telefoni cellulari, reti Wi-Fi e Bluetooth. Il motivo? Potrebbero interferire con le numerose apparecchiature scientifiche dislocate nell'area. 

L'altra particolarità è il fatto che ci si debba togliere le scarpe anche quando si entra nei luoghi comuni come la mensa, la palestra ed il piccolo negozietto che c'è in paese. Lessi che questa consuetudine nacque quando ancora le Svalbard non erano il "paradiso scientifico" che è oggi, ma quando era un luogo in cui russi e norvegesi estraevano il carbone. A fine turno, i minatori, per evitare di sporcare di carbone i luoghi in cui si recavano, si toglievano le proprie scarpe da lavoro. Una buona abitudine che è sopravvissuta fino ad oggi e che risparmia molto fatica agli addetti alle pulizie! 🙂

Infine, a causa della presenza dell'orso polare (alle Svalbard vivono 1500 persone e vi sono 3000 orsi), è obbligatorio uscire da Ny Alesund armati di un fucile. Per questo si deve seguire un breve corso teorico e pratico dove ti insegnano a sparare anche in condizioni di stress (anche se non paragonabili a quelle che ci potrebbero essere in presenza di un orso). L'orso a Ny Alesund si è palesato diverse volte, soprattutto nei mesi estivi.

#nyalesund #svalbard

Una lama sul viso. Questa è stata la sensazione q
Una lama sul viso. Questa è stata la sensazione quando siamo scesi dalla motoslitta sul ghiacciaio Holtedalfonna, a circa 1000 metri di quota. Un dolore lancinante. Il freddo fa male. Il vento ancora di più. In effetti la temperatura esterna non era estremamente bassa (-20°C circa), ma le raffiche fino a 12 m/s portavano la percepita  a -34,5°C.  Bassina!
Fortunatamente siamo riusciti a scavare una buca nella neve sufficientemente larga sia per proteggerci dal vento sia per poter estrarre la carota e catalogarla. 
Mentre Andrea e JC (il collega norvegese con il quale ci siamo recati sul ghiacciaio) si occupavano del carotaggio, io ed Elena misuravamo i pezzi di carota estratti e li catalogavamo in modo da poterli poi processare ed analizzare in un secondo momento.
Purtroppo le condizioni meteorologiche stavano peggiorando sempre di più e, dopo aver estratto la prima carota, ci siamo fermati pensando su cosa fosse il caso di fare: prendere anche la seconda oppure no? Nel mentre pensavamo al da farsi, il tempo scorreva senza che ce ne rendessimo conto. Ed è forse questa la cosa più strana di queste giornate senza notte (il Sole non tramonterà più fino al 27 di Agosto): l'assoluta incapacità di comprendere quante ore trascorrono. 
Alle 18, considerando che Ny Alesund era a circa 3 ore di viaggio e che il meteo restava pessimo, abbiamo deciso che fosse meglio rincasare. Domani torneremo per ottenere la seconda carota. 
E' stata un'avventura in condizioni climatiche, a detta di Andrea, tra le più dure mai incontrate qui in Artico. Se c'era un biglietto da pagare per godere delle meraviglie naturali che ci circondano, lo abbiamo pagato

#polarresearch #ricercapolare #svalbard #polonord #chemistry

La Danimarca è tra i Paesi che con maggiore decis
La Danimarca è tra i Paesi che con maggiore decisione sta implementando e adottando strategie per decarbonizzare la propria economia entro il 2050. Oltre alla decisione recente di interrompere le attività di estrazione di gas naturale e petrolio al largo delle sue coste (la Danimarca è il più grande produttore di petrolio all'interno dell'Unione Europea), il governo danese ha infatti avviato il più grande progetto di realizzazione di due isole artificiali interamente dedicate alla produzione di energia dal vento.

Si tratta di due impianti, uno nel Mare del Nord, l'altro nel Mare di Barents, che, quando saranno ultimati nel 2032, riusciranno a garantire da 5 a 10 GW di potenza (i 10 GW sono un target a lungo periodo). Se consideriamo che ad oggi in Europa si producono complessivamente 12 GW da impianti offshore, capiamo bene quale sarà l'impatto di questo progetto che, per la sua realizzazione, potrà contare sull'expertise di aziende che da decenni si occupano di queste tematiche (Orsted su tutte).

Gli impianti costeranno complessivamente 28 miliardi di euro e l'energia che produrranno sarà venduta e distribuita ai paesi limitrofi (Paesi Bassi, Germania, Regno Unito e Belgio), contribuendo quindi ad alleggerire il "peso fossile" anche per altri Paesi.

Si tratta di un investimento imponente, mai visto prima e che ci permette di guardare con un po' più di fiducia al futuro. 

#zeroemissions #emissionizero #eolico #energiealternative #cambiamentoclimatico #climatenews

Uno dei giorni più duri è arrivato: l'uscita al
Uno dei giorni più duri è arrivato: l'uscita al ghiacciaio Holtedahlfonna, a circa 90 km dalla Base di Ny Alesund. In altre parole: 3 ore di guida (+ altre 3 al ritorno dopo aver scavato una buca di 2 metri e mezzo) su terreni, specialmente nel tratto terminale, particolarmente accidentati. Dall'alto infatti i ghiacciai sembrano dei manti piatti e senza asperità, se si escludono i crepacci). Alla fine di una giornata come questa, iniziata alle 11 e finita a mezzanotte, si cambia decisamente idea.

Come ormai vado ripetendo spesso, la fatica è stata ripagata da paesaggi incredibili la cui vastità è difficilmente immaginabile. Il tornare tardi è stato poi impreziosito da un ulteriore tramonto da togliere il fiato. Le montagne si sono "spente" ad eccezione delle vette. La luce è virata poi al rosso. A fare da cornice a questo magnifico quadretto le maestose "Tre Corone", la cui severità ci ricorda di essere in uno dei luoghi più pericolosi del Pianeta. A tal proposito, ieri è stato avvistato un orso polare nei pressi di Longyarbaen, sufficientemente distante da qui, ma tant'è...

Per concludere, anche al Polo ho portato la tradizione del "pastommerda" (gli amici torinesi capiranno): in sostanza un piatto riempito di cibo a caso dal peso netto di qualche chilo... D'altronde ciò che conta sono le calorie, il sapore è un orpello non indispensabile, anche se continuo a rimanere dell'idea che il cibo qui non sia male. 
Domani si ritorna sullo stesso ghiacciaio per effettuare due carotaggi e un campionamento per un progetto nato in Base. Anche questo succede a 79° N e trovo che sia entusiasmante: science rocks! 

#science #scienza #ricercapolare #svalbard


Il trasporto di polvere sahariana verso l'Europa è un fenomeno piuttosto comune durante i mesi invernali. In alcuni casi, esattamente come l'evento dello scorso 6 e 7 Febbraio, la polvere del deserto può raggiungere anche le Alpi depositandosi sulla neve.

Un evento particolarmente intenso è stato quello registrato nell'inverno del 2014. Per poter studiare il fenomeno, i ricercatori delle università di Trento, Firenze, Venezia, Pisa e Insbruck si sono recati sulle Dolomiti. Qui, scavando nel manto nevoso, hanno potuto osservare molto chiaramente uno strato di neve decisamente diverso dagli altri e che indicava inequivocabilmente la deposizione di sabbia del deserto: era giallo.

Indossando delle tute per evitare di contaminare il manto nevoso, hanno poi effettuato dei campionamenti sia degli strati "non sahariani" sia di quello associato all'evento in questione. Dal punto di vista chimico, lo strato giallastro si mostrava decisamente arricchito di elementi quali calcio, ferro, magnesio, alluminio e potassio. Soprattutto la presenza di ferro evidenzia come la sabbia sahariana fornisca oligoelementi fondamentali per la produttività dei suoli e degli oceani.

In questo caso, però, la "sorpresa" è arrivata dall'analisi microbiologica della neve. In effetti, i ricercatori hanno individuato nello strato sahariano comunità di batteri e funghi completamente diverse da quelle presenti negli altri strati indicando chiaramente come queste non fossero autoctone. Infatti, questi microorganismi, estremamente resistenti a condizioni ambientali estreme (es. Geodermatophilus), erano della stessa tipologia di quelli identificati in campioni di sabbia sahariana. 

Alcuni dei batteri identificati nello strato sahariano sono noti per causare reazioni allergiche, infezioni polmonari e alla pelle negli umani, mentre possono causare danni alle foglie o limitare la crescita dei vegetali. Quando quindi la neve fonderà (e anche i ghiacciai, in uno scenario di cambiamento climatico), questi microorganismi saranno rilasciati nell'ambiente rappresentando potenzialmente un pericolo per gli ecosistemi e per l'uomo.

FONTE: Weil et al., Microbiome (2017) 5:32

#saharandust #microorganismi

Ogni anno vengono pubblicati circa 2 milioni di nu
Ogni anno vengono pubblicati circa 2 milioni di nuovi articoli scientifici. Se si mettessero uno sopra l'altro le prime pagine di tutti gli articoli scientifici pubblicati negli ultimi 100 anni, si arriverebbe quasi a toccare la cima del monte Kilimangiaro (circa 6.000 metri), ma pochi di questi hanno davvero fatto la differenza (circa la metà non ha ottenuto più di 1 citazione). 

L'articolo di cui oggi celebriamo l'anniversario è uno di quelli che la differenza l'ha fatta per davvero. Si tratta di "Disintegration of Uranium by Neutrons: a New Type of Nuclear Reaction" pubblicato dai fisici Lise Meitner e Otto Frisch che, insieme ai chimici Otto Hahn and Fritz Strassmann sono stati gli scopritori della fissione nucleare, quel processo per cui, se il nucleo di un atomo di uranio (uranio-235, ad esempio), viene bombardato da neutroni, questo si divide in nuclei più leggeri liberando raggi gamma ed energia. 

Questa scoperta è stata il risultato di più di quarant'anni di studi sulle proprietà delle sostanze radioattive e permise di dare seguito alle primissime ricerche di Enrico Fermi e degli altri ragazzi di via Panisperna (Oscar D'Agostino, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi e Franco Rasetti). Gli scienziati italiani avevano osservato la formazione di nuovi elementi  in seguito al bombardamento di uranio con neutroni lenti. Li chiamarono ausonio ed esperio. 
Fu però grazie alle successive scoperte di Hahn, Strassman, Leitner e Fisch, che si riuscirono a comprendere e spiegare pienamente le straordinarie osservazioni del gruppo di ricerca italiano come il risultato di un nuovo fenomeno: la fissione nucleare.

Nonostante la scoperta della fissione nucleare sia stata possibile grazie alla partecipazione di diversi scienziati, solo Hahn ricevette il Nobel per la Chimica nel 1944 "per la sua scoperta della fissione di atomi nucleari pesanti". Meitner, definita da Einstein, "la Marie Curie tedesca" e tra le pochissime donne attive nel mondo scientifico della prima metà del secolo scorso, non riuscì a vincere il Nobel nonostante fosse stata nominata ben 38 volte tra il 1924 ed il 1965 per il Nobel per la Chimica e la Fisica.

Le strade deserte, il traffico automobilistico rid
Le strade deserte, il traffico automobilistico ridotto a zero, il cielo senza aerei. L'anno scorso il mondo si è fermato e questo ha comportato inevitabilmente un calo delle emissioni di CO2 in atmosfera. L'entità di questa riduzione si è attestata tra il 4 ed il 7% rispetto al 2019.

Essendo l'anidride carbonica il gas ad effetto serra più conosciuto, alcuni, osservando come le temperature nel 2020 siano state tra le più alte mai registrate, hanno dubitato sull'effettiva veridicità delle affermazioni sul riscaldamento globale. La domanda è stata: ma com'è possibile che, nonostante le emissioni siano calate, le temperature sono aumentate?

Per rispondere a questo quesito occorre introdurre il concetto di tempo di semivita di una qualsiasi sosanza chimica una volta emessa in atmosfera. Questo termine indica quanto tempo occorre aspettare prima che la concentrazione iniziale di una determinata sostanza (la CO2 nel nostro esempio) si dimezzi. 
Se questo valore per altri gas serra è facilmente calcolabile e si aggira intorno ai 12 anni per il metano e ai 121 per il protossido di azoto, per la CO2 il calcolo diventa meno immediato per via della complessità del ciclo del carbonio. La CO2 è una molecola chimicamente inerte ed i processi per una sua definitiva rimozione dall'atmosfera sono molto lunghi. Pensate che circa il 25% della CO2 immessa in un determinato istante può "sopravvivere" in atmosfera per i successivi 500 anni, esercitando il suo potere riscaldante.

Questo concetto, per quanto descritto in maniera superficiale, contiene diverse implicazioni. La prima è che non ha senso pensare che un anno con meno emissioni possa portare ad una riduzione significativa delle temperature, proprio perché le temperature che stiamo sperimentando ora sono anche frutto dell'accumulo e dell'azione riscaldante di molecole di CO2 emesse decenni/secoli fa. In secondo luogo, anche qualora dovessimo arrivare ad emissioni zero, questo potrebber non essere sufficiente per ridurre le temperature, per gli stessi motivi di cui sopra. Una strada da percorrere è quindi quella di rimuovere la CO2 dall'atmosfera attraverso complessi, costosi e ancora molto incerti meccanismi di cattura.

Tra ieri e oggi ho capito che cosa voglia dire ess
Tra ieri e oggi ho capito che cosa voglia dire essere un ricercatore polare. Eccetto una breve uscita, non avevo mai vissuto una "spedizione" completa. 

E' un lavoro difficile in cui non devi avere paura. Non devi avere paura di andare su un ghiacciaio, di guidare una motoslitta in condizioni sempre diverse e, soprattutto, non devi aver paura di fare fatica, perché se ne fa tanta. 

Paradossalmente però la cosa che più mette a disagio è la presenza dell'orso polare. Non c'è, ma allo stesso tempo c'è. Ogni tanto, dopo aver scavato qualche metro nella neve, ci si ferma a controllare l'orizzonte: sia mai che una palla di pelo bianca non spunti e si diriga incuriosita proprio verso di te.  Come dicevo, avvistare l'orso, specialmente in questo periodo, è piuttosto raro. Tuttavia non impossibile. Ed è questo alone di incertezza che mi rende più inquieto. 

Ad ogni modo, la durezza di questo lavoro è ripagata da scenari come il tramonto di ieri... 

#science #polarresearch #svalbard #chemistry #chimica #ricercascientifica

La scoperta dei raggi X è frutto della serendipit
La scoperta dei raggi X è frutto della serendipità, vale a dire della capacità di saper indagare e scoprire dei nuovi fenomeni anche quando si stava cercando qualche cos'altro.

E, come per la penicillina di Fleming, è stato così anche per il professor Wilhelm Roentgen. L'8 Novembre 1895 Roentgen stava conducendo degli esperimenti relativi al passaggio di corrente elettrica attraverso dei gas a bassa pressione. Nelle vicinanze del tubo che conteneneva il gas, vi era, del tutto casualmente, un foglio di carta cosparso di una sostanza debolmente fosforescente. Avviato l'esperimento, Roentgen si accorse, con la coda dell'occhio, che quel foglio di carta emetteva luce. 
Spinto dalla curiosità (e da una sana dose di serendipità, appunto), ripetè l'esperimento più volte e spiegò il fenomeno come una conseguenza del fatto che il tubo contenente un gas rareffatto e percorso da elettroni, emettesse dei raggi particolari in grado di provocare l'emissione luminosa da parte del foglio di carta.

Per comprendere meglio le caratteristiche di questa radiazione, collocò diversi materiali tra il tubo ed il foglio di carta (compresa la mano di sua moglie davanti ad una lastra fotografica) e capì che soltanto il piombo era in grado di bloccare la propagazione di questi raggi. Roentgen li chiamò "Raggi X", dove "X" stava per sconosciuto.

La scoperta gli valse il Premio Nobel per la Fisica nel 1901 e, per quanto molti suoi colleghi proposero di chiamare questa radiazione con il nome del suo scopritore, la denominazione dei raggi rimase X.

Roentgen morì in disgrazia nel 1923, ma la sua scoperta rivoluzionò il campo della medicina tant'è che già qualche anno dopo la loro identificazione, i raggi X furono usati per la prima volta in Canada in ambito ospedaliero.

#losapeviche #raggiX #roentgen #premionobel #didyouknow #sciencefacts #serendipity

Siamo agli inizi del '900, quando, durante una par
Siamo agli inizi del '900, quando, durante una partita di biliardo probabilmente molto accesa, in seguito ad un colpo ben assestato e all'urto tra due palline si verificò una piccola esplosione. Il rumore scatenò il panico nel saloon e presto tutto finì in una sparatoria. Che cosa aveva causato l'esplosione? 

Prima dell'invenzione dei polimeri plastici sintetici, un materiale plastico molto in voga tra la fine dell'800 e gli inizi del '900 era la celluloide. 
Questo materiale era costituito da nitrato di cellulosa mescolato con la canfora e fu commercializzato con successo negli Stati Uniti da John Hyatt per la produzione di una grande varietà di oggetti: montature per occhiali, bottoni, palle da biliardo, giocattoli e in seguito anche pellicole fotografiche e cinematografiche. 
Si trattava di oggetti molto apprezzati, ma, a causa della presenza di nitrato di cellulosa, anche altamente infiammabili. 

Il nitrato di cellulosa (o fulmicotone) fu preparato per la prima volta nel 1845 quando, il chimico svizzero Christian Schonbein, lo sintetizzò unendo in condizioni controllate (18°C) il cotone a una miscela concentrata di acido solforico e acido nitrico (7:3). La scoperta di questa sostanza fu però del tutto casuale: dopo aver distillato una miscela di acido nitrico e acido solforico, Schonbein fece asciugare il proprio camice sopra ad una stufa. Il camice, di cotone, bruciò rapidamente senza produrre fumo. Da qui, l'intuizione di prepararlo in laboratorio e di usarlo, viste le sue proprietà infiammabili ed esplosive, come valida alternativa alla comune polvere da sparo. 

Potete quindi facilmente immaginare come un urto particolarmente forte tra due palle da biliardo contenenti nitrato di cellulosa abbia liberato un calore sufficiente da innescare una piccola esplosione. La cosa buffa, se ci si pensa, è che di per sé questo avvenimento fu assolutamente innocuo viste le quantità in gioco. I danni veri e propri furono causati dalla reazione delle persone che, spaventate, diedero spazio all'"esplosione" delle proprie rivoltelle! 

Grazie a  @martinadn94 per il suggerimento! <3 

#didyouknow #curiosità #molecoladellasettimana #esplosivo #esplosione #losapeviche


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